American Crime Story – La corsa della vita di OJ Simpson

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È sempre difficile farsi un’opinione unitaria sui lavori di Ryan Murphy perché lui è in grado di farti gridare al capolavoro con una stagione e farti strappare gli occhi dalle orbite per non guadare oltre con un’altra.

The People v. OJ Simpson, sotto questo aspetto, può essere considerato il tipico esempio di un lavoro murphyniano, che mi esalta e mi scassa le palle insieme. È il primo capitolo della sua nuova serie antologica, American Crime Story, che in ogni stagione analizza uno dei più grandi processi d’America.
E il processo che ha visto come protagonista la star del football americano e del mondo dello spettacolo, Orenthal James Simpson, non solo è stato uno dei processi più di impatto in America, ma ha innescato così tanti meccanismi a catena che inaugurare questo progetto con tale storia è stata una mossa azzeccatissima. Tale processo, a distanza di anni, continua a far parlare di sé e, chi è stato coinvolto, continua a raccogliere i frutti dell’operato svolto in quei giorni. Purtroppo, per parlare di una serie che tratta un fatto di cronaca in maniera così accurata, inevitabilmente mi ritroverò a dare delle opinioni personali sui fatti di cronaca stessi, cosa che vorrei assolutamente evitare ma che forse mi sarà impossibile. Murphy è riuscito ad amalgamare così bene realtà e finzione narrativa che mantenere un occhio critico su tutta la storia e limitarmi alle scelte stilistiche e narrative mi sembra impossibile. Lo stesso Murphy, del resto, non ci è riuscito. Ma procediamo per gradi.
Chi, come me, è nato intorno agli anni ’90 e non ha memoria dei fatti accaduti, probabilmente si è trovato spaesato e si è chiesto quanto delle cose che abbiamo visto sia vero e quanto sia stato romanzato: diluiti in 10 ore di televisione ci sono fatti di cronaca e finzioni narrative il cui scopo è quello di raccontare i sottintesi di una vicenda che ha fatto la storia – di supporli, forse, di insinuarli… ma forse anche di allungare il brodo per riempire il tempo a disposizione.

La storia viene narrata cronologicamente, priva di flashback e flashforward e mentre i fatti generali vengono esposti ed il processo viene portato avanti, alcuni episodi supportano la storyline generale affiancandola alla storia dei personaggi. Ne è l’esempio uno dei migliori episodi della stagione, Marcia, Marcia, Marcia, nel quale ogni cosa eclissa di fronte ai problemi che deve affrontare una donna per niente abituata alle conseguenze di un processo che prima di tutto è mediatico. Ad interpretare Marcia Clark c’è Sarah Paulson, immancabile volto nei lavori di Murphy, che risplende nel ruolo di una donna caparbia e devota alla verità, ma pur sempre donna e per questo un po’ vendicativa, un po’ controversa. Questo episodio mette anche in luce un importantissimo aspetto della vita lavorativa non solo di quegli anni, ma in generale di sempre: non c’è modo per una donna di vincere. Ciò che è poco rilevante per un uomo, diventa fonte di discriminazione per una donna. E ancora una volta il processo di OJ Simpson diventa un processo mediatico non sono per l’imputato, ma per tutti quelli che ne fanno parte.
A Jury in Jail è un altro episodio su questo stampo, impostato questa volta sulle difficoltà che deve affrontare la giuria, costantemente “in prigione” come suggerisce il titolo e in una questione claustrofobica.
Più che gli eventi in sé del processo, sono questi i punti di forza della serie, che la rendono più piacevole e interessante. Perché, altrimenti, la stagione avanza lentamente e alcuni episodio sono particolarmente difficili da vedere appunto per la lentezza della narrazione.

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Un punto di forza della stagione sono i suoi interpreti. Oltre alla Paulson nel ruolo di Marcia, abbiamo un Courtney B. Vance che sembra essere nato per il ruolo di Johnnie Cochran, così come Sterling K. Brown è riuscito a rendere perfettamente Christopher Darden. Se il team di difesa di OJ Simpson è passato alla storia come il dream team, con questi tre interpreti American Crime Story si è guadagnata il trio delle meraviglie. Nonostante alcuni si siano lamentati di Cuba Gooding Jr, io l’ho trovato impeccabile nel ruolo di OJ. Forse ha una voce poco profonda, non somiglia fisicamente a OJ come gli altri attori richiamano alle persone che interpretano, ma ciò che ho davvero apprezzato della sua interpretazione è il modo in cui è riuscito a rendere l’ambiguità di Simpson. Decisamente eccessivo, invece, è John Travolta. Mi dispiace ma l’ho trovato troppo composto nel ruolo di Shapiro, troppo tirato, troppo fasullo. Shapiro era proprio così, alla fine, ma non so, c’era qualcosa che stonava. In ultimo, ho davvero apprezzato David Schwimmer nel ruolo di Kardashian. Un attore iconico come lui poteva essere una scelta azzardata perché il rischio che si correva era quello di vedere Ross in ogni scena come di solito succede quando alcuni attori interpretano personaggi diversi da quelli che li hanno resi storici, invece no, questo non accade mai. Sappiamo sempre che quello che vediamo è Robert Kardashian. Davvero di pessimo gusto è stata la scelta di dare troppa rilevanza ai Kardashian senza quasi mai prendere in considerazione i figli di OJ. Quello era proprio un chiaro tentativo di puntare l’attenzione su qualcosa di futile, come a dire “ehi, ci sono I Kardashian, fottesega dei Simpson che non hanno più la mamma”.

Dopo un processo durato dei mesi, i giudici lasciano il verdetto in sole quattro ore. “They’ve discussed this case less than anybody in America”, dice Shapiro, ed è vero. Ma forse, come molti, non sono riusciti a stabilire che OJ Simpson fosse colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Da qui si aprono altri minuti di interessante televisione, dove ci viene mostrato un uomo libero ma profondamente solo, costretto a convivere per sempre con le conseguenze delle sue azioni o presunte tali, costretto a convivere non solo con l’opinione della gente, ma con l’opinione dei suoi amici che, a prescindere dall’aiuto che gli hanno dato, si sono fatti una loro opinione. Ed è vero che Robert Kardashian si è allontanato dal suo amico a seguito del processo; poi, tutto il resto, è storia.

In definitiva, dopo tutta questa pappardella, il mio consiglio è quello di dare una possibilità a questa serie perché di sicuro è bella e si lascia guardare, ma dovete conoscere i vostri limiti: quanto siete in grado di sopportare episodi lenti e noiosi – a favore di cliffhanger (se così possono chiamarsi) che valgono davvero la noia sopportata?

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About Jeda

Jeda
Top 5 : Banshee, Twin Peaks, Son of Anarchy, Homeland, Downton Abbey. Nata e cresciuta in mezzo al verde e alla campagna nel lontano 1990, Jeda sviluppa sin da piccola l’innata capacità di stare ore ed ore seduta di fronte un qualsiasi schermo a guardare serie tv - che, in età infantile, erano cartoni animati. È una dote che le tornò utilissima con l’avvento dello streaming, riuscendo a vedere telefilm senza stancarsi mai, ignorando completamente lo studio e i risultati si vedono: fuoricorso da circa mille anni, la sua preoccupazione principale è quella di riuscire ad essere in paro con i recuperi, almeno una volta nella vita. Le piace leggere, scrivere ed ha una passione quasi ingestibile per le cose oscene.

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