È la primissima volta che mi trovo a recensire American Horror Story e la paura di fare un pessimo lavoro è moltissima. Non perché parlare di show controversi o disturbati mi risulti difficile, quanto piuttosto temo che il mio rapporto bipolare di amore-odio che nutro per tutti gli show targati Ryan Murphy&Co possa oscurarmi il giudizio.
A questo punto, una premessa introduttiva mi par doverosa.
Ho seguito e apprezzato moltissimo tutti i suoi prodotti, da Popular a Glee, da Nip/Tuck al nuovissimo Scream Queens e ho sempre amato il modo particolare e personalissimo che ha Murphy di fare ironia, di creare un prodotto brillante e nuovo, di rimescolare i topos della serialità e di trasformarli in qualcosa di geniale e folle, esagerato e sopra le righe.
American Horror Story non è da meno, anzi, forse più degli altri ha dato la possibilità a Murphy di esprimere al meglio la sua personalità eccentrica e geniale.
Sangue, sesso, musica e coreografie – The Name Game è ancora impresso a inchiostro indelebile in tutti i cuori dei fan – truculenti omicidi, pazzi assassini, eccessi e stravaganze hanno contribuito a rendere AHS un buon prodotto con una fedele fanbase che, nonostante gli alti e bassi, attende ancora con una buona dose di nostalgia di rimanere sconvolta e terrorizzata come con Asylum, hands down la miglior stagione di AHS.
Pur considerando Ryan Murphy un autore folle, ironico e geniale, mi sono trovata moltissime volte a storcere il naso o addirittura ad imprecare veementemente contro lo schermo del computer alla vista del calo di qualità dei suoi prodotti di episodio in episodio, di stagione in stagione. Affetto da quella che ironicamente chiamo La crisi della terza stagione, i prodotti di Murphy difettano enormemente per la spasmodica ricerca di voler stupire il telespettatore con chissà quali storyline o ingarbugliamento di fili narrativi, per poi ridurre lo sforzo ad una accozzaglia sconclusionata di elementi che faticano a trovare una degna conclusione.
Un folle con le manie di protagonismo, uno showrunner che è solito smarrire la bussola, o un eccentrico visionario non compreso dal suo pubblico? Ai posteri l’ardua sentenza.
Se Checking In mi aveva convinta abbastanza come partenza pur facendomi storcere il naso in diversi momenti, Chutes And Ladders mi fa rimangiare tutti i dubbi e le perplessità, lasciandomi per un’ora e dieci minuti piacevolmente incollata al divano e con il desiderio, alla comparsa dei credits finali, di avere subito un altro episodio. Non mi capitava una situazione simile dai gloriosi tempi di Asylum.
Finalmente si inizia a fare luce sul quel groviglio buio e apparentemente insensato che ci erano sembrate le storyline dei personaggi che infestano l’hotel.
Checking In si era limitato a gettare qualche confusionario assaggio con l’orgia di sangue e i corpi cuciti nei materassi. Un guazzabuglio di elementi che ci avevano fatto intuire un primo labile collegamento – vittime dell’hotel – ma Chutes And Ladders inizia a mettere ordine, sperando che poi questa ottima abitudine che hanno preso gli autori di fare chiarezza – almeno in parte, altrimenti si perde il fascino del mistero – venga mantenuta fino a fine stagione.
Come ci ha insegnato Asylum, per comprendere i segreti di una persona o di un luogo bisogna innanzitutto scavare indietro nel suo passato, fino ad arrivare alle origini. Se si tratta di un luogo maledetto, un’analisi a ritroso di questo tipo è necessaria per ovvie se non scontate ragioni.
Il male che serpeggia prepotente per i corridoi dell’hotel e che infesta in modo particolare la stanza 64 deriva da ogni più piccolo atomo di James March, fondatore e proprietario dell’Hotel Cortez nonché spietato serial killer che ha mietuto vittime tra avventori, lavoratori o personale del suo stabile come se fosse la Morte in persona.
Le pareti dell’hotel grondano sangue da ogni dove; spettatore silenzioso e impotente di tutti i massacri che si sono compiuti al suo interno, arriva ai giorni nostri sotto le vesti della tomba sepolcrale di tutti quegli innocenti, vittime della follia omicida di un pazzo assassino assetato di sangue, incatenati per l’eternità tra quei corridoi di male e ferocia e costretti a condividere la loro non-vita e gli spazi con gli ignari avventori della struttura. La letteratura in materia da cui attingere è amplissima, ma Murphy non si dimentica di omaggiare nemmeno stavolta dei grandi maestri del cinema horror. Ancora una volta risulta prepotente il richiamo di The Shining di Kubrick, in modo particolare si sente la sua eco rimbombare nelle pareti anguste del bagno della stanza 64, chiaro omaggio alla celebre scena presente nel film.
Nei panni di James March troviamo Evan Peters al suo meglio, come non lo vedevamo dai tempi di Murder House. Il talento recitativo di Peter emerge con maggior vitalità nei ruoli di controversi e sanguinari psicopatici. Superbo nei panni di Tate Langdon, in Coven e Freak Show è stato relegato a ruoli più marginali e inserito nel Team Good Guys. Memore degli errori passati, Ryan Murphy ha deciso in questo nuovo capitolo di osare ancora di più di quanto non aveva fatto nella prima stagione. E il risultato finale è eccezionale. Inserito in studiati ed efficaci flashback in bianco e nero, l’orrore che ha segnato l’hotel negli anni della corsa al petrolio è il lasciapassare per la strada dell’Inferno, dove il sangue scorre a fiumi, l’odore di Morte pregna ogni angolo e la follia delirante mangia vivo ogni personaggio, vittime e carnefice, senza nessun tipo di distinzione.
Dolore e malinconia, fatica del vivere e perdita di tutti i punti fermi dell’esistenza umana trovano il loro culmine nella bestemmia a Dio e nel rogo delle Bibbie, emblematico e potente gesto di ribellione nei confronti di un genitore fervente credente solo nella teoria dei precetti religiosi.
«Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!» scriveva Nietzsche ne La Gaia Scienza. Sentenza ad hoc per le immagini di corpi mutilati che si susseguono sotto ai nostri occhi.
Il tema religioso ricompare anche ai giorni nostri grazie all’acuta riflessione del detective Lowe, arrivando a concludere che gli omicidi sui quali sta svolgendo le indagini sono ispirati ai Dieci Comandamenti. Questa volta è Se7en di David Fincher che viene omaggiato.
In ampio contrasto con il bianco e nero dei flashback, flash di fotografi, grandi griffe e abiti luccicanti e costosissimi adornano la passerella da cui fa la sua maestosa entrata il modello Tristan Duffy. Capriccioso e volubile, Tristan si presenta come nuovo discepolo nonché giocattolo per l’eccentrica Contessa costantemente assetata di sangue e sesso, che si vede costretta a dover fare i conti con la furente gelosia del bellissimo Donovan.
Nonostante il mio scetticismo iniziale e le mie perplessità circa la presenza della pop star nella serie, il duo Gaga-Bomer funziona benissimo. Mi sono immediatamente ricreduta sul suo ruolo, così giusta ed adatta, così semplicemente lei, la controversa nuova regina del pop che non manca mai l’occasione per dare scandalo, lasciare il pubblico a bocca aperta e folgorarlo con la sua stravaganza ed eccessività.
Un ruolo, quello della Contessa Elisabeth, che le è stato cucito perfettamente su misura. Il suo charme è magnetico a tal punto da riuscire a far gravitare tutta l’attenzione su di sé.
E Matt Bomer controbilancia magnificamente. I due risultano esplosivi, sapientemente combinati in un intreccio di possessione, sesso, gelosia e (forse) amore.
Unica pecca la poca presenza di Sarah Paulson che con Sally ha finalmente la possibilità di riscattarsi dopo due stagioni di personaggi mediocri.
Il secondo episodio conferma maggiormente le buone sensazioni avute dopo la visione della première. Ma io sono diffidente di natura e il rituale scaramantico che compio prima di ogni visione di un nuovo episodio continuerò a farlo fino alla fine, sperando che sia di buon auspicio affinché la stagione continui a procedere su questi binari.
Vi lascio con il promo del prossimo episodio e vi ricordo di passare da American Horror Story ITALIA e da American Horror Story Italia Streaming.