L’arrivo di Dead of Summer di Freeform è passato un po’ in sordina, se ne è parlato poco e solo di recente, e forse perché a prima acchitto questa serie tv a metà tra il drama e il sovrannaturale suona un po’ come trita e ritrita. Io stessa inizialmente non ero sicura se seguirla oppure no, sia per il network di trasmissione che non è mai sinonimo di qualità (Pretty Little Liars, hello?), sia perché avevo paura di ritrovarmi a guardare qualcosa di troppo simile a Guilt (altra novità di Freeform). Alla fine il pilot è bastato a convincermi, ma addentriamoci a sviscerare un po’ questa prima puntata di Dead of Summer.
I want to make Stillwater as special for everyone else as it was for me. You can find out who you are here, you can be who you wanna be here. This will be the best summer, ever.
Parole di Deb Carpenter – cognome che, per chi non lo sapesse, è un omaggio al grandissimo regista e sceneggiatore John Carpenter, uno degli ultimi maestri dell’horror rimasto in vita – che suonano molto di più come un presagio di morte che come un augurio felice ma, dopotutto, è proprio quello che ci aspettiamo.
Dead of Summer è ambientato nella fine degli anni 80 nel Camp Stillwater e attualmente ci troviamo a qualche giorno dalla riapertura dopo la chiusura avvenuta nel 1984. Deborah è proprio una campista che ha amato così tanto il campo da investire tutta se stessa e tutte le sue risorse economiche per riaprirlo. Tuttavia, non basta che il pilot per avere la certezza che le ragioni che l’hanno spinta a riaprire non siano quelle altruiste dichiarate. Nasconde qualcosa e non la nasconde nemmeno così tanto bene.
L’episodio si apre con un flashback del 1871 nel quale un uomo si trova da solo in una stanza a suonare il piano. Non so quanti di voi siano dei fan dell’horror, ma l’uomo è interpretato da Tony Todd, attore iconico per aver interpretato Candyman nell’omonimo film e, più in generale, per essere un viso ricorrente in pellicole di questo genere. Nel giro di pochi istanti, comunque, la visione di Todd che suona viene sostituita da una vista sul lago ci dà la raccapricciante immagine di quello che ha tutta l’aria di essere un rito propiziatorio consumatosi proprio sulle acque immobili del lago. Quello dei flashback è un espediente che viene molto utilizzato nella serie, ci porta costantemente indietro di qualche anno per darci dei piccoli indizi su cosa è accaduto sia nei luoghi che alle persone ed è sicuramente il mezzo più comune e facile per insinuare curiosità in chi guarda: automaticamente, vogliamo sapere che cosa è successo. Il flashback serve anche ad accrescere la suspance e a farci capire che c’è molto altro della storia da sapere ma che i tempi non sono ancora maturo per sapere tutto. Il flashback, insomma, è un po’ bastardo e spesse volte anche illusorio perché ti convince che il mistero avvolto nel passato sia qualcosa di estremamente “wow” ma molto spesso le aspettative vengono demolite dalla realtà. Dead of Summer, con l’utilizzo del flashback, cammina sul filo del rasoio, in bilico tra la porcata e qualcosa di effettivamente piacevole se considerato che la storia è intrisa di sovrannaturale. Il rischio che si corre ovviamente è quello che la realtà di ciò che sta succedendo non eguagli le aspettative.
Nel guardare Patience si ha proprio l’impressione di guardare un film anni 80, dove le scene di leggerezza adolescenziale vengono bruscamente interrotte da attimi di suspance improvvisa. Per me che sono una nostalgica di quel genere di film che hanno caratterizzato la mia infanzia, trovarmi immersa in quelle atmosfere è stato come un tuffo nel passato. Questo, a mio avviso, è un grandissimo punto di forza della serie; ho sempre apprezzato il citazionismo ben fatto nelle serie tv.
I protagonisti della serie sono un gruppo di ragazzi appena usciti dalle superiori, la maggior parte dei quali è andato a sua volta a Camp Stillwater quando era ragazzino. La formula del gruppo compatto è la più tipica dei film horror e la trovo perfetta per una serie tv del genere, perché dà modo non solo di mettere in atto le forme più tipiche della suspence – immagino che prima della fine della stagione più di uno ci lascerà le penne – e allo stesso tempo ci permette di osservare gli intrecci che si instaureranno tra di loro. Il gruppo di ragazzi è un concentrato di stereotipi senza fine: abbiamo il Dawson Leery della situazione che gira sempre con la telecamera, quella nuova arrivata (tra l’altro, l’attrice che interpreta Amy mi sembra tantissimo una versione giovane della VanCamp), quello simpatico, quello bello, quella figa e invidiosa, quella gay (tra l’altro, siamo negli anni 80… siamo sicuri che un adolescente fosse così tranquillo con la propria omosessualità?!), quella che scrive male di se stessa sui muri e quella che si finge uomo. Un gruppo più assortito di cliché non si era mai visto prima eppure va bene così. Non dà fastidio come lo darebbe in qualunque altra serie tv, e forse perché Dead of Summer, ambientando la sua prima stagione nella fine degli anni 80, vuole uniformarsi con ciò che veniva trasmesso in quei tempi. Io, almeno, lo vedo con questo spirito.
Vi do appuntamento alla prossima recensione e colgo l’occasione per invitarvi a passare da Dead of Summer Italia.