Doctor Who – Recensione 9×01 – The Magician’s Apprentice

Dopo mesi di lunghissima attesa finalmente Doctor Who torna sul piccolo schermo. La scorsa stagione ci aveva lasciato in bocca un sapore dolceamaro, dovuto a una narrazione piuttosto discontinua e frammentata, poco adatta a mettere davvero in luce la personalità alquanto oscura e tenebrosa di questa tredicesima rigenerazione che inizialmente aveva fatto storcere un po’ il naso, ma che alla fine è riuscita a mettere d’accordo tutti. Twelve si è sempre mostrato all’altezza di ogni situazione; quella a risultare il più delle volte inadeguata era la situazione stessa.
Il dubbio che l’ottava fosse stata una stagione preparatoria e apri-pista lo conferma The Magician’s Apprentice che, senza troppi preamboli, catapulta il Dottore e noi telespettatori subito nel cuore degli eventi.

Se questo catapultarsi subito in medias res può risultare alienante e alquanto bislacco per una season première, sapendo poi che la scrittura proviene direttamente dal pugno di Steven Moffat, la cosa finisce per non sorprenderci più di tanto.
Criticato da molti, osannato dai più, su un punto possiamo essere tutti d’accordo: Steven Moffat ci tiene in allenamento l’intelligenza. Il suo modus narrandi ha segnato una netta linea di confine rispetto alle precedenti scritture di Russel T. Davies. Moffat ama giocare con ampie porzioni temporali, ama scrivere, riscrivere e persino sovrascrivere il passato, intrecciando più fili narrativi, ingarbugliarli in una matassa intricatissima e poi dipanarla a proprio piacimento. Un genio folle e capriccioso che ama visceralmente il passato, tanto da non dimenticarsi mai di inserirlo qua e là per rendergli omaggio e creare quel continuum tra presente e passato, tra rigenerazione e rigenerazione che rendono Doctor Who una delle serie più complesse e complete dell’intero panorama televisivo.

Gli intricati giochi di wibbly wobbly permettono anche un uso nuovo e completamente avulso dai canoni della scrittura narrativa, piegandola alle proprie intenzioni. Flashback e flashforward assumono quindi nuove sfumature, diventando deus ex machina che permettono alla narrazione di risultare paradossalmente lineare. Ma questa 9×01 non rispetta questo tipo di schema. Preferisce piuttosto girare intorno alla questione, dilungandosi persino in alcuni momenti per poi sorprenderci e lasciarci sconvolti negli ultimi minuti finali.

tumblr_nuzno9a1RH1ts0tz7o2_540L’incontro con il piccolo Davros è il pretesto che mette in moto tutto questo intricatissimo meccanismo, partendo così, fin dai primissimi frame, da un punto fermo e saldo della mitologia di Doctor Who.
La lezione della scorsa stagione circa la critica volta alla sua eccessiva frammentarietà sembra aver sortito i suoi effetti. Ammesso e non concesso che l’ottava stagione sia stata più un’introduzione alla nuova rigenerazione e un continuo giustificarsi sulla scelta della nuova figura del protagonista, questa nona sembra porre già in tavola le carte giuste per quella che si preannuncia una grandissima impostazione di trama, almeno se i sensi e le mollichine che abbiamo colto in questi 46 minuti non ci ingannano.
Il piccolo Davros in apertura, la Unit, Missy, la Sorellanza di Karn, la Shadow Proclamation, il Maldovarium non sono di certo buttati lì a caso, giusto per riempire un vuoto. Sono tutti elementi che spero avranno un forte impatto sulla trama orizzontale, poiché, come scrivevo l’anno scorso in ogni recensione, un attore del calibro di Peter Capaldi merita una scrittura alla sua altezza. E con questo nuovo ciclo di episodi gli autori non possono permettersi di deludere le aspettative.

Le antiche glorie del passato non si affacciano solo con i brevi ma potentissimi frame di congregazioni e agenzie – che hanno comunque fatto il loro bravo lavoro di stuzzicare il palato – ritornano anche con le voci di Tennant, McCoy, Colin e Tom Baker. Eterno ritorno dell’eco del passato che viene giocato sempre in modo vincente, specialmente quando Moffat vuole ricordarci la costante presenza dei Dalek – e di Davros indirettamente – nella lunga vita del Dottore. Stavolta però la rievocazione ha uno scopo ben preciso, quello di una profonda e complessa analisi di coscienza. Un momento simile lo avevamo avuto l’anno scorso, con Into The Dalek, che ha strizzato l’occhio in diverse occasioni al face-to-face di Nine in Dalek.

Questa volta il richiamo scava più indietro nel tempo e nelle rigenerazioni, fino ad arrivare a Four e alla sua occasione di sterminare una volta per tutte la nuova stirpe dei suoi acerrimi nemici rinati dalle cellule di Davros stesso, salvatosi dalla Time War grazie all’intervento di uno dei suoi Dalek. Ma in Genesis of The Daleks – uno degli episodi più significati delle serie classica – Four, preso dai rimorsi di coscienza, non compie questo gesto estremo. Le conseguenze vennero subite da tutte le rigenerazioni future.

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Twelve quindi si trova nella stessa situazione di Four, gelato sul posto non appena il piccolo Davros gli rivela innocentemente il suo nome.
Ed è proprio a questo punto che si inserisce uno degli stratagemmi narrativi molto amato da Moffat e largamente utilizzato in tutte le stagioni e con i due Dottori che ha avuto il piacere e l’onore di sceneggiare: quello del paradosso temporale, del viaggio indietro e in avanti nel tempo e nello spazio per scrivere e riscrivere pezzi di storia per modificarne gli effetti futuri. Ma il tempo è una variabile molto sensibile e delicata; bisogna sempre prestare molto attenzione a come lo si manipola.

Ritmo incalzante e ansia crescente si riscontrano non appena le ruote dell’ingranaggio iniziano a muoversi nel giusto verso: la sensazione che qualcosa di grande, di importante e forse spaventoso sta per accadere si aggrappa addosso al telespettatore e non lo abbandona fino al flashforward del finale, col quale si ritorna alla nebbia di un’antica Skaro devastata dalla guerra e alla successiva comparsa di quel famigerato To Be Continued che non fa altro che accrescere le aspettative e il timore per la vita del Dottore, della TARDIS e per quella della stessa Clara, un malcelato preannuncio di quanto accadrà a fine stagione, ora che le voci dell’abbandono della serie da parte di Jenna Coleman hanno trovato la loro conferma.

tumblr_nv3533K0i61qfz5kho4_250A smorzare i toni cupi e ansiogeni ci pensa un’audace e sfacciata Missy, che rispolvera dal Classic Who la bizzarra amicizia costellata da un continuo stuzzicarsi, provocarsi, guerreggiarsi. Un rapporto che emerge in tutta la sua stravaganza dall’accurata descrizione che ne fa la stessa Missy seduta al tavolino con Clara, quasi come fosse una confidenza tra vecchie amiche ritrovatesi dopo tanto. Clara ne rimane stranita, e anche noi al di qua dello schermo, abituati con la nuova era del Dottore a un Master vendicativo, crudele, folle, diabolico e pericoloso. Con la nuova rigenerazione tutta al femminile ci troviamo dinanzi a un Time Lord/Lady burlone, irrequieto, machiavellico, dalla risposta sempre pronta, dalla battuta sagace e pungente, una rigenerazione che porta una boccata d’aria fresca, rivoluzionaria se vogliamo per certi aspetti e che speriamo non sia di passaggio, come invece è stato per il Master di John Simm.

Anche se rimane il mistero e la curiosità circa come abbia fatto a tornare, liberandosi dal vortice temporale della Time War nel quale si era confinato, in un atto di estremo sacrificio nei confronti di Ten, assieme a Gallifrey e Rassilon. Che si abbia coscienziosamente voluto lasciare in sospeso nel tempo e nello spazio le sorti del Master è cosa ben logica da pensare, dal momento che nessun autore ingabbierebbe volutamente in un Limbo senza via di fuga un personaggio di tale portata, in modo tale da poterlo far tornare quando si ritiene più opportuno così da dare più spessore al tutto. Cosa che è sempre avvenuta per i Dalek.
Ma ci sono degli interrogati e delle questioni in sospeso alle quali non possono fuggire nemmeno quelle menti folli e geniali degli autori.
E anche perché quello del Master è un passato troppo interessante e fonte di grande curiosità per rimanere per sempre inesplorato.

Come partenza The Magician’s Apprentice risulta essere più che buona. In suo favore ha anche il vanto di aver regalato delle chicche difficilmente dimenticabili, primo tra tutti lo stile da rocker di Twelve che ha quasi ricordato un Ronnie Wood o un Brian May. E l’omaggio alla colonna sonora di Pretty Woman.
Ma il giudizio è attendibile solo per metà. Dobbiamo attendere sabato prossimo per il verdetto decisivo, per la promozione o la bocciatura di questa première in doppio episodio.

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