Nuova coppia di episodi anche questa settimana che continua a proporre quella successione che tanto era mancata nella scorsa stagione. Forse questo modus ci sta sembrando un po’ eccessivo e ridondante, forse è colpa della mancanza di budget che ha costretto il team creativo a questa scelta pur di non far mancare ai suoi fan affezionati l’annuale dose di avventure di the mad man in a blue box, forse perché avventure autoconclusive e stand-alone restituivano al telespettatore una stagione eccessivamente frammentata costellata da situazioni riempitive solo l’apparenza, ma che in realtà non aggiungevano e non toglievano né alla trama verticale né tantomeno a una appena accennata trama orizzontale.
Le criticità dell’ottava stagione non sono di certo passate inosservate, e sebbene possa esser sembrato un grosso azzardo riproporre costantemente la successione della doppietta di episodi, il risultato finora avuto si è rivelato più che buono. Questi quattro episodi sono genuinamente piaciuti, hanno portato quella buona dose di freschezza e novità che tanto erano mancate lo scorso anno, imbrigliato in una spirale (quasi) autodistruttiva di giustificazionismo infondato nei confronti della scelta del suo stesso protagonista.
E è proprio sulla scia di questa rinnova freschezza e vitalità che ci siamo ritrovati di già tra le mani la prima parte del terzo serial, nonché al giro di boa di questa nona stagione.
Se in una delle mie scorse recensioni avevo velatamente accennato ad una sorta di nostalgia per un’avventura ambientata indietro nel tempo, con The Girl Who Died vengono prontamente accontentate la sottoscritta e la stessa tradizione di Doctor Who.
In Under The Lake e Before The Flood la trama orizzontale era stata messa in stand-by per fare spazio alle paure primordiali e agli intrigati giochi di manipolazioni temporali; questa volta essa torna prepotente ad occupare e a strabordare da ogni fotogramma. Gli autori sembrano non voler perdere tempo questa volta, tanto da iniziare a introdurre elementi fin dai primi minuti, rendendo immediatamente chiaro verso quale orizzonte virerà l’intero episodio.
La scrittura torna di nuovo nelle mani dell’onnipresente Steven Moffat che, in questa occasione, è affiancato da un recente acquisto nel team creativo della serie: Jamie Mathieson.
Da quel poco che abbiamo potuto dedurre con Mummy On The Orient Express e Flatline, Mathieson è un autore che ama infarcire di mistero e di elementi creepy situazioni improntate su di una scia ironica e bizzarra, mescolando in modo intelligente e brillante due sfere sensoriali agli antipodi tra loro.
L’unione di mistero ed ironia ha creato un binomio alquanto positivo, tanto da venir nuovamente proposto in una sua nuova scrittura che questa volta si avvale della suprema supervisione di Steven Moffat.
L’atterraggio della TARDIS ai margini di un villaggio vichingo dopo aver scampato l’ennesimo pericolo alieno introdotto in medias durante uno dei numerosi gironzolamenti in time and space potrebbe sembrare casuale a primo impatto. Ma se c’è una cosa in cui Steven Moffat è un maestro è proprio lo sbugiardamento della casualità.
Niente è lasciato al capriccioso volere del Fato. Tutto accade per una ragione ben precisa. E la pazienza è un’alleata fedele degli Whovians. L’era di Moffat ha segnato un netto confine con le precedenti scritture di Russell T. Davies, molto più lineari e complete nel loro complesso. Moffat ama prendersi gioco del telespettatore, non lasciandogli mai la possibilità di adagiarsi sugli allori ma piuttosto di tenere sempre in allerta l’attenzione e in allenamento l’intelligenza. Semina indizi e molliche qua e là nel corso degli episodi e quanto meno te l’aspetti ti dà la soluzione, che si rivela essere mai completa e mai completamente esaustiva.
È un modus operandi cervellotico e macchinoso, talmente complesso da rischiare di incappare in frequenti buchi narrativi e paradossi temporali. Ma l’equilibrio di Doctor Who si basa principalmente su questo suo continuo scrivere, riscrivere e sovrascrivere la trama, in questo suo continuo evolversi e cambiare costantemente per dare una spiegazione logica al tutto. E qualora una spiegazione non sia ancora arrivata, ci pensano le teorie degli appassionati che non mancano mai di arrovellarsi il cervello o l’avanzare stesso degli episodi e delle stagioni a collocare al proprio posto ogni nuovo elemento.
Lo sguardo che si scambiano il Dottore e Ashildr fa subito intuire un non detto nascosto tra le pieghe di un passato recente o lontano di cui avremo risposta solo nel prossimo episodio. Quei pochi secondi che introducono il personaggio di Maisie Williams è il trampolino che permette il lancio nella seconda parte di un episodio di per sé autoconclusivo.
Sconfitto il falso dio Odino e il suo esercito addetto alla raccolta di uomini valorosi e coraggiosi per distillarne l’essenza con un espediente che fa storcere il naso alla scienza ma che ha una logica irreprensibile nell’universo di Doctor Who, The Girl Who Died si chiude senza nessun cliffhanger. Ma poco male, perché le domande che sorgono durante i quaranta minuti sono sufficienti per porre le basi per la seconda parte. Prime fra tutte quelle che nascono dopo la lunga auto-analisi che il Dottore fa alla sua persona, con tutti i monologhi che fungono da strumenti potenti di indagine della sua vita, della sua etica, della sua morale.
Una prima risposta gli (e ci) giunge tramite un flashback (dolorosissimo) ben inserito di David Tennant e Catherine Tate che tocca nel profondo il telespettatore e il Dottore stesso.
Non solo ci viene inaspettatamente servita, dopo una stagione, la spiegazione sul perché quel volto e quelle rughe erano tanto familiari al Dottore – smontando come se fosse un banale castello di carte le ipotesi che tutti noi abbiamo formulato fin da Deep Breath – ma si ristabilisce ancora una volta quel robusto filo rosso che lega l’era di Moffat con l’eredità di Russell T. Davies. E il risultato finale è armonioso e per nulla imbrigliato in rigidi schermi di scrittura. Forse perché non stavolta non si è ricorsi alla tipica soluzione di carattere moffatiano, quella che predilige il ricorso ad intricati giochi di wibbly wobbly.
Il Dottore è portatore di salvezza, ha due cuori per amare il doppio, specialmente le vite umane, così piccole e fragili. Un tema molto ricorrente nel New Who.
Ma è anche un essere estremamente tormentato nel profondo. Nonostante questa rigenerazione, a differenza delle precedenti, sia consapevole di aver salvato Gallifrey seppur in modo anticonvenzionale, Twelve ha da fare i conti con il dissidio interiore con cui hanno dovuto convivere anche Ten ed Eleven.
Immortality isn’t living forever, that’s not what it feels like.
Immortality is everybody else dying.
Eterno ritorno di uno dei temi chiave della serie, la tristezza e la dolorosa malinconia di un uomo ultracentenario che è stato testimone di morte e distruzione, fine di mondi, di amori, galassie e di tutto ciò che è destinato ad avere una fine. Una reazione emotiva più che plausibile e giustificabile nel momento in cui Twelve si appresta a donare alla piccola Ashildr, ormai fuori pericolo, di un secondo congegno di tecnologia Mire. La sensazione di un fatale errore a cui in un futuro sarà difficile porre rimedio serpeggia velocemente nella mente di Twelve. E la conferma la sia ha pochi minuti dopo, quando la sensazione si trasforma in una probabile certezza di un ennesimo momento chiave della vita e dell’etica del Dottore.
Se così fosse la presenza di Maisie Williams (impegnata in altri contesti) rimarrebbe per due episodi per poi tornare come personaggio costante ma con volti diversi in altri momenti della linea temporale del Dottore. Un po’ come è avvenuto per River Song.
A inizio recensione facevo riferimento a momenti di pura e genuina ironia. Non posso quindi non citare l’umorismo noir di Twelve e le chicche di grande ilarità che ci ha regalato anche in questa occasione, prime fra tutte lo yo-yo, i nomi con i quali ha ribattezzato i vichinghi e il video con la theme song di Benny Hill.
Signori, MAISIE WILLIAMS, e ho già detto tutto.
no scherzo ahahaha
Comunque all’inizio non ero nemmeno io molto felice dei doppi episodi, ma sto rivalutando la faccenda. In ogni caso sto notando sempre una costante (ce l’avevo lì, in un angolino del cervello…leggendo tutte le recensioni è diventata invece mooolto palese!!): in ogni episodio di questa nona stagione, in un modo o in un altro, c’è sempre un tornare sulla proprio linea temporale, rompere le regole sulla vita e la morte, la solitudine e il cambiamento. Penso che stiano lasciando mollichine di pane per farci abituare all’idea della separazione tra Clara e il Dottore, e che per quanto lui possa tornare indietro e cercare di cambiare la sua stessa linea, Clara non tornerà (ovviamente supposizioni e mia idea generata dal caldo della bbilioteca da cui scrivo xD). Forse è tutta una mia idea, ma è come se si stessero preparando al grande botto e per non farci rimanere troppo male alla fine ci dicessero: ve l’avevamo detto!
Anyway, quel Ten che mi compare così facendomi perdere tutti i miei anni di vita? Ne vogliamo parlare?? Ten, my love <3 <3 <3
Come sempre, complimenti per la recensione, scritta egregiamente e in modo tale da mettere in moto i nostri cervellini telefilmici a creare nuove teorie e cospirazioni xD
Grazie!!!