Homeland – Recensione 4×08 – Halfway to a Donut

Homeland torna con un episodio ricco di tutti gli elementi che da sempre tirano fuori il suo meglio: lo spionaggio, la suspense, Carrie sull’orlo di una crisi di nervi, le bugie ed i sotterfugi.

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L’episodio si apre con Carrie ancora nell’abitazione del colonnello Khan, in stato semi confusionale poiché non riesce ad assemblare i pezzi di ciò che le è da poco successo. Devo ammettere che facevo parte di quel nucleo di persone che non avrebbe mai dato un soldo di fiducia a Khan e questo perché il suo ruolo nell’ultima puntata è stato volutamente ambiguo. Invece, in pieno stile Homeland, hanno smentito i miei sospetti dimostrando che, tutto sommato, Khan fa parte dei buoni e si dimostra un solido alleato per la nostra Carrie: prima le impedisce di mettere a repentaglio la sua carriera tirandola fuori di prigione, poi le fornisce il nome di colui che ha sostituito le sue medicine con degli allucinogeni. Khan-Mathison è un binomio che non ci saremmo aspettati di vedere ma che rischia di funzionare, poiché entrambi hanno un disperato bisogno di credere che anche nella fazione opposta ci siano dei buoni, ma anche in questo caso temo una rovinosa fine nel momento in cui la loro accoppiata prenderà la strada del risvolto sentimentale. Forse sono io che tendo sempre ad aspettarmi questo genere di cose ma da una parte l’ho percepita come un’evoluzione “naturale” dopo l’enorme interessamento dimostrato da Khan nei confronti di Carrie. Mi auguro di sbagliarmi poiché Homeland ha sempre funzionato anche perché riusciva ad amalgamare le relazioni sentimentali alle storyline di spionaggio in maniera impeccabile mentre in questo caso risulterebbe una fastidiosa forzatura, quindi mi ritrovo a dire di apprezzare questa nuova coppia, ma con riserve.
Ancora una volta Claire Danes si dimostra un’attrice di qualità elevatissima e a farle da spalla nelle scene iniziali vi è l’ottimo lavoro di ripresa: per accentuare lo stato confusionale della donna, Carrie è in parte nascosta dalla spalla del suo interlocutore e le inquadrature tremano ogni volta che lei parla; quindi, anche noi come Carrie, ci sentiamo spaesati. Non ci soffermiamo mai abbastanza su queste piccole sfumature che in realtà servono tantissimo per catapultare lo spettatore nel giusto stato d’animo.
La condizione mentale di Carrie è sempre stata un argomento molto delicato, che ha accompagnato il personaggio per le precedenti tre stagioni diventando spesso fonte di poca credibilità della donna, ma non questa volta. Stranamente, quando Carrie confessa a Lockhart e Quinn che le sue medicine sono state manomesse, i due non si preoccupano minimamente che questo fattore possa compromettere la sua posizione come capo della base in Pakistan, anzi li vediamo pendere completamente dalle sue labbra. Ciò è possibile perché, a prescindere da qualunque problema, Carrie è sempre stata ineccepibile nello svolgere il suo lavoro e con la situazione che stanno vivendo – con Saul in ostaggio in terra nemica – non possono permettersi di fare a meno della loro migliore possibilità di salvare l’ex direttore della CIA, tuttavia la superficialità con la quale hanno trattato l’argomento ha stonato particolarmente con le misure estreme prese nelle precedenti stagioni.

Quindi se questi intrecci funzionano e non funzionano, ciò che funziona davvero è il cuore dell’episodio; il centro nevralgico di Halfway to a Donut vede come protagonista indiscusso Saul ed il suo travagliato tentativo di fuggire da Farhad Gazi e non essere merce di scambio per farlo ricongiungere con i terroristi prigionieri della CIA, per altro tutti membri del suo comando operativo. Era da tempo che aspettavo che le magnifiche doti di Mandy Patinkin emergessero e mi dispiace essere stata costretta ad aspettare la morte di Nicholas Brody affinché ciò accadesse.
Con una ripresa live mandata in sala conferenze, l’ISI fa sapere alla CIA quali sono le condizioni per il rilascio di Saul, ma né il prigioniero né l’ambasciata americana sono disposti ad accettare.
Saul è talmente tanto determinato a non essere merce di scambio per i talebani da inscenare il suo suicidio e tentare una fuga disperata, preludio del tentato suicidio che avverrà qualche scena dopo. Proprio come aveva previsto Carrie, Saul non sarebbe mai disposto ad essere lui l’uomo che metterà a repentaglio due intere nazioni (non solo l’America, a questo punto, ma anche il Pakistan) e fa promettere a Carrie di sganciare il drone se la sua fuga non dovesse riuscire. Carrie lo promette ma, se qualche settimana fa era più che intenzionata ad uccidere Saul per poter far fuori anche Gazi (e vendicare l’ennesima vittima di questa guerra senza vincitori né vinti), stavolta, per sua stessa ammissione, stava solo cercando di non uccidere nessuno.
Saul, rendendosi conto che la sua unica via di salvezza era costituita da quella pallottola che si è lasciato convincere a non sparare, si lascia andare ad un odio e una disperazione che mai gli avevamo visto esternare prima di allora. Finalmente questo grande personaggio riesce ad emergere in ogni sua sfaccettatura, donando qualità alla puntata e salvandola dal bilico iniziale.
Senza sbilanciarmi troppo nelle previsioni, il rapporto di Carrie e Saul ora è sicuramente compromesso ed anche riuscire a salvarlo non sarà più così facile visto la mancanza di fiducia che da sempre li ha visti come coppia indissolubile.

Tutti quelli che erano ancora incerti sulla serie non possono fare altro che ricredersi di fronte ad un episodio così brillante e coinvolgente, degno rivale dello splendore delle prime due stagioni.
Prima di lasciarvi al trailer della prossima puntata vi invito a passare nella nostra pagina facebook e di visitare la pagina Homeland ITA.

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