La Casa di Carta parte 3, disponibile su Netflix dal 19 luglio, presenta le medesime carenze logiche del passato con l’aggravante della ripetitività della storyline e della mancata evoluzione dei suoi personaggi.
Si tratta di una delle serie non USA più viste degli ultimi anni e di uno degli originali Netflix su cui la piattaforma streaming punta maggiormente in un universo dell’entertainment sempre più competitivo. Tuttavia, l’atteso ritorno de La Casa di Carta è stato estremamente deludente anche per chi, da un prodotto del genere, si aspettava solo ed esclusivamente un intrattenimento facile, del quale si gode senza porsi troppe domande.
Dopo essere usciti vittoriosi dal colpo alla Zecca di Stato, il Professore e i suoi sono entrati in acque internazionali e si sono dati alla macchia, sparpagliati a coppie in diversi luoghi del globo secondo il piano del loro astuto capo. A riunire la banda è solo la necessità di salvare Rio, espostosi troppo nel tentativo di ricontattare Tokyo, che rimane voce narrante. Grazie a questo assai banale espediente narrativo, i nostri ritornano a darsi al crimine con un colpo ben più rischioso ed estroso del precedente, ideato da Berlino quando ancora era in vita e ambientato all’interno della Banca di Spagna.
Per poter apprezzare una serie come La Casa di Carta, è necessario assumere lo stesso atteggiamento mentale che si ha nell’approcciarsi ad un qualsiasi film d’azione, in cui i protagonisti riescono a portare a termine azioni straordinarie e fuori da ogni razionalità, riportando solitamente pochi graffi, al contrario degli avversari. Il vero problema nel ritorno dello show spagnolo, allora, non sono le pur presenti fallacie logiche nella trama.
La questione invece è che, sebbene la parte 3 sia composta da soli otto episodi, i primi sei si limitano ad essere una copia sgualcita di quanto abbiamo già visto nelle due parti precedenti. Ogni cosa, dalle dinamiche interpersonali rappresentate sullo schermo alle mosse da scacchi fra il Professore e la polizia, danno di stantìo e fanno tutto fuorché intrattenere. La serie non riesce a trarre beneficio nemmeno dall’introduzione dei nuovi personaggi, ai quali non viene data la giusta caratterizzazione: ad esempio, Palermo è chiaramente funzionale a prendere il posto di Berlino, ma ne risulta una copia mal riuscita e peggiorata, che fra l’altro cade negli stessi meccanismi di eccesso di potere e conflitto visti in passato col suo predecessore.
Ciò, unito al fatto che i vecchi membri della squadra non hanno subìto alcuna evoluzione e che per oltre metà stagione l’arco narrativo si svolge all’interno della banca come in passato fu nella Zecca, fa sì che l’intero nucleo di episodi dia di già visto.
Ben più godibili sono le scene di flashback in quel di Firenze e gli ultimi due episodi, in cui viene messa in scena la fuga del Professore e di Lisbona. Probabilmente è un segnale del fatto che La Casa di Carta ha un disperato bisogno di osare di più, di uno storytelling che la conduca ad evolversi ed andare oltre gli schemi narrativi che l’hanno sì portata alla notorietà, ma che certo non possono continuare a ripetersi.
Infine, anche il riferimento alla Resistenza e all’appoggio popolare appaiono come delle occasioni perse, in quanto hanno un profondo potenziale (V per Vendetta dice niente a nessuno?), ma non sono approfondite a sufficienza, sebbene ci siano state molteplici occasioni per farlo andando oltre il sottofondo di “Bella ciao”. Se uno spettatore affezionato a Tokyo&co può venire a patti con il fatto di veder andare a buon fine piani ai limiti di ogni logica, di certo non può accettare di annoiarsi nel mentre.
La speranza è che gli autori de La Casa di Carta abbiano progetti più ambiziosi per la parte 4 della serie, di modo tale da poterle dare a breve una chiusura dignitosa che la annoveri di certo non fra i capolavori, ma almeno fra gli show da binge watching sfrenato per sere un po’ più spensierate.
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