Mi ricordo ancora quando iniziai a vedere la prima puntata di Six Feet Under, era il 2009 (purtroppo già tardi), sarà stato il periodo particolare che stavo attraversando, ma è stato un vero colpo di fulmine che si è trasformato – durante le cinque stagioni che ho letteralmente divorato – in un amore, di quelli che ti lasciano tramortiti e disperati, ma che alla fine ti migliorano.
Sembra impossibile come una serie possa entrare così nel profondo tanto da spostare il mio modo di vedere il mondo, eppure episodio dopo episodio ho riso per le brutture della vita, sono sprofondata nel dolore più cupo, ma ho avuto sempre la forza di rialzarmi, perché – e questa è la prima cosa che mi ha trasmesso Six Feet Under – il dolore fa male, ma non uccide.
La vera protagonista della serie è la morte, tutti gli episodi (a parte una), iniziano infatti con un decesso… non importa che sia per un incidente automobilistico, per una puntura di api o per semplice vecchiaia… C’è. Come nella vita, ci siamo fino al momento in cui non ci saremo più gettando nella disperazione le persone più care perché questo distacco è totalmente imprevedibile e incontrollabile. E’ questa la seconda cosa che mi ha trasmesso Six Feet Under: noi siamo un soffio attaccato alla speranza di stare il più possibile in un mondo che ci fa soffrire, ci allontana e ci mette continuamente alla prova. E non contenti alla fine ci ritroviamo corpi senza vita, decomposti e sotto tre metri di terra.
Le persone nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Nel mezzo c’è la vita, la famiglia, l’amore, l’amicizia e ci sono anche gli sbagli, le lotte quotidiane, le incomprensioni, le mancanze… e tutto si fa per trovare una propria felicità. Quante volte si cade e quante volte si ci rialza? La terza cosa che mi ha trasmesso Six Feet Under è di non perdere mai l’ironia e noi stessi, anche nei momenti peggiori.
Il regista di questo capolavoro di show è Alan Ball, che in sole cinque stagioni (di 12 puntate l’una) riesce a dipingere la vita, in ogni sua sfumatura. Sempre con delicatezza e con il dovuto humor vengono toccati e sviscerati un’infinità di tematiche reali (il suicidio, l’omosessualità, il razzismo, la malattia, l’amore, la nascita per ricordarne alcuni) sulle quali riflettere.
Six Feet Under non è solo un telefilm da seguire, è un sentiero durante il quale il cuore si strapperà e verrà ricucito più volte, si piangerà, si riderà, episodio dopo episodio ci si sentirà più vulnerabili, ma al tempo stesso più consapevoli di chi siamo e alla fine di questo percorso ci si ritroverà più forti.
La serie è stata trasmessa dal 2001 al 2005 e racconta della saga della Famiglia Fisher, dal primo episodio in cui muore il padre in poi, quando Nathaniel e David (immenso Michael C. Hall) prendono in mano l’azienda familiare di pompe funebri. Inevitabile, quindi, la connessione con la morte e con il dolore delle famiglie dei defunti quando varcano la porta dell’azienda Fisher.
Ogni defunto ha la sua storia speciale, che funge da spunto per la trama di ogni episodio.
Punto di forza della serie sono i protagonisti stessi, che nell’arco di cinque stagioni percorrono il loro personale sentiero di cambiamento, lottano, litigano, amano e odiano per raggiungere se stessi, o anzi per diventare quello che sono sempre stati. Ho sempre immaginato ogni componente della Famiglia Fisher come un bocciolo in attesa di fiorire, di affermarsi al mondo e di affrancarsi dai consueti stereotipi che la vita e la famiglia in cui si nasce cuce addosso.
Sono così umani e così fragili che è impossibile non innamorarsi dei fratelli David (fermo ma sensibile e bisognoso di amore per sentirsi completo che ho ammirato per il suo percorso emozionale relativo alla sua omosessualità) e Nathaniel (sempre inadeguato in ogni situazione), della sorella Claire (bellissima nella sua instabilità e nella sua ricerca di indipendenza) e della mamma Ruth (fantastica per la sua voglia di voler a tutti i costi ricominciare, nonostante tutto).
E’ grazie alle vite di questi quattro personaggi che si arriva fino in fondo all’anima. Tutte le loro vicende personali si intrecciano con quelle lavorative, si contaminano a vicenda appunto perché legate dalla morte che – anche se viene spesso ironizzata – è sempre presente.
Credo, quindi, che un grandissimo merito di Alan Ball è di aver trattato un tema tabù come la morte rendendolo normale, trattando la drammaticità dell’argomento con la giusta ironia. E’ unico, è perfetto.
Spesso mi capita di andarmi a riguardare gli ultimi dieci minuti dell’ultimo episodio, come se volessi ricordarmi il motivo per il quale questa serie mi è entrata dentro. In quei dieci minuti è condensata l’essenza dell’intera serie, dal dramma alla speranza, passando per le gioie della vita e arrivando inevitabilmente alla morte.
Dato che spero di avervi incuriosito non voglio mettere il video dell’ultimo episodio, ma se volete un assaggio di quello che è Six Feet Under ecco un pezzo tratto dalla quarta stagione che mi è rimasto particolarmente nel cuore. Ovviamente, per essere in linea con lo spessore dello show, anche la colonna sonora è all’altezza.
Concludendo, lo consiglio a tutti perché è una serie che fa sentire, almeno un pochino, cambiati.
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assolutamente fantastica
Sono alla prima stagione e già sono completamente sotto.
L’ho sempre visto in modo discontinuo ed è una di quelle serie, tra tante, di cui comprerei all’istante i cofanetti…