Tornare a parlare di The Handmaid’s Tale dopo due anni dalle mie recensioni, non è cosa facile. The Handmaid’s Tale tratta tematiche così forti e coinvolgenti che, recensirla, significa inevitabilmente raccontare anche qualcosa di noi, ci obbliga a guardarci dentro per fare i conti con la rabbia e la frustrazione che ci provoca.
Siamo ormai vicini al giro di boa di questa terza stagione e mi sembra doveroso fare il punto della situazione. Dove ci sta conducendo questo continuo andirivieni tra Gilead e il Canada?
Era inevitabile che la fuga di Emily e Nichole avesse delle ripercussioni nel corso della attuale stagione, ma The Word aveva piantato dei piccoli semi che mi aspettavo di veder germogliare diversamente.
Ciò che per me è sempre stato più interessante vedere nella serie, riguardava principalmente Serena Joy, una donna complessa e vittima dello stesso sistema che ha aiutato a costruire. Nella seconda stagione compie una rinuncia che non la ritenevamo in grado di fare, apre momentaneamente gli occhi e rinnega Gilead per amore della sua bambina. Si dimostra essere tanto madre di Nichole quanto lo è June. Sa che il mondo in cui vive è misogino e per sua figlia vuole qualcosa di più. Vuole la possibilità di essere libera, di crescere felice, di imparare a leggere e a scrivere, vuole che sappia difendersi da un mondo che, altrimenti, la schiaccerebbe. Vuole qualcosa di più di Gilead.
Abbiamo vissuto attimi potentissimi durante queste scene; ci siamo trovati di fronte ad un punto di svolta.
Quando intraprendi un simile percorso, non puoi tornare indietro; non puoi fingere di non aver sovvertito il sistema, di non aver lottato, di non aver rischiato tutto. E dunque, quando The Handmaid’s Tale è tornata con la sua terza stagione mostrandoci una solida alleanza tra Serena e June, ero elettrizzata. Nelle prime due stagioni abbiamo esplorato ogni aspetto distopico della Repubblica di Gilead: abbiamo assistito agli stupri, alle mutilazioni, alla violenza psicologica, siamo stati nelle Colonie e lì abbiamo capito fino a che raggio di estensione arriva la crudeltà di Gilead. Ma abbiamo anche avuto un accenno della Resistenza, quel sottilissimo filo rosso che passa da Marta ad Ancella, uno spirito di ribellione che somiglia che passa di bocca in bocca attraverso un sussurro leggero, ma che anima una speranza gigantesca. Ed è proprio questo alito di ribellione che ci aspettavamo di vedere nella S3.
The Handmaid’s Tale ha fatto un lavoro magistrale nel mostrarci la distopica e asfissiante Gilead, non può trascurare un aspetto altrettanto importante della tirannia, ossia la resistenza ad essa. “They should have never given us uniforms if they didn’t want us to be an army“. Che rendano vera questa frase potentissima, che traggano ispirazione da questa citazione della prima stagione per ribaltare la narrazione, è ciò che tutto il pubblico di The Handmaid’s Tale merita, dopo due stagioni di bastonate.
Dunque, mi riallaccio al titolo. Stiamo tornando indietro? Temo di sì. The Handmaid’s Tale ci ha abituati a vedere gli episodi trattenendo il respiro, perché ad ogni momento può succedere qualcosa di terribile ed è determinato a continuare su questa linea. E tuttavia, nonostante la serie continui ad essere sempre la stessa e continui a farci provare le medesime sensazioni, io mi sento tradita. Arrivati a questo punto, esigo di più. Esigo più di qualche pacco che viene passato sottobanco, esigo più di una Marta che tenta di fuggire per unirsi alla Resistenza ma non ci riesce. Esigo più di June che prova a salvare Hanna ma viene scoperta, esigo più di Serena che tradisce June e si allea nuovamente con il Comandante. Esigo di più perché tutte queste cose le ho già viste, più e più volte, nelle prime due stagioni.
E voi, cosa ne pensate della terza stagione fino ad ora? Vi sentite soddisfatti oppure, proprio come me, vi aspettate qualcosa di più? Fatemelo sapere con un commento!