‘What the hell?’
Viene spontaneo anche a noi esclamare queste parole assieme a Gordon Cole, specialmente dopo la visione di questa nuova coppia di episodi-parti.
Se con la lunga première David Lynch ci ha riaperto il sentiero per i fitti boschi di Twin Peaks e aggiunto nuovi elementi per riannodare i fili del passato e proiettarsi verso sviluppi futuri, con Part 3 e Part 4 la sensazione di alienazione che si raggiunge già dai primissimi frame è altissima. Disorientare il telespettatore creando uno scenario surrealista, a metà tra un sogno e una mera illusione ha sempre caratterizzato il lavoro di David Lynch, soprattutto quello in ambito cinematografico.
I primi venti minuti di questa Part 3 sono un puro godimento per gli occhi, ma allo stesso tempo una palestra faticosissima per la ragione che, caparbia e tenace, vuole sempre conferire un significato a ciò che la vista filtra dall’esterno. Frame scattosi e lenti, silenzi assordanti, dialoghi privati di ogni qualsivoglia tipo di comunicazione e pause lunghissime. Sembrano essere proprio questi ultimi a comunicarci molto di più di quanto non farebbe invece un consueto scambio di battute tra i personaggi.
Geniale quanto delirante, questo nuovo modus di concepire le interazioni tra le persone apre il varco a sottintesi interpretativi e messaggi volontariamente mal celati lasciati alla totale e autonoma interpretazione del telespettatore, al quale sembra essergli affidato lo stesso compito dell’agente Dale Cooper quando in quel lontano 24 Febbraio del 1989 mise per la prima volta piede a Twin Peaks: indagare su uno scenario a metà tra la realtà e il sogno, in cui nulla sembra mai essere ciò che sembra.
La frase ‘Ognuno vedrà nella serie ciò che vuole’ pronunciata dallo stesso Lynch è stata quanto mai profetica e tale ammonimento risuona prepotentemente per tutte le pareti osmotiche della Black Lodge, diventata ormai una sorta di contenitore fluido dalle pareti permeabili.
Dopo venticinque anni di prigionia delirante nella Black Lodge, Dale Copper riesce finalmente a fuggire da quel luogo che gli ha intorpidito i sensi e la mente per tornare nel mondo reale. Il tempo scorre anche nella Black Lodge, ma esso è chiaramente governato da leggi proprie, avulse alla canonica successione dei minuti e delle ore.
Nella doppia première abbiamo finalmente avuto la risposta che tutti noi avevamo atteso per anni, ma Lynch non si è accontentato e ha voluto mescolare ulteriormente le carte in tavola.
Pare infatti che il nostro agente preferito sia stato sostituito da ben due doppelgänger, i quali sembrano riproporre, sotto certi aspetti, alcuni tratti caratteriali dei due spiriti possessori abitanti della Black Lodge: BOB e MIKE.
Il Cooper che ricalca gli atteggiamenti malvagi di BOB ci è stato presentato come un fuggitivo rude e violento, invischiato in rozzi affari con tizi di dubbia moralità.
Il Cooper che invece sembra essere più affine alla natura mista di bontà e malvagità di MIKE, ricalca anche gli handicap fisici del One-Armed Man, così come il vestiario, la capigliatura e la gestualità.
Perché questi due doppelgänger?
La chiave di lettura più coerente con la stessa visione onirica e surreale che ci fornisce il regista in modo velato sembra essere quella dell’inconscio.
Lynch ha volutamente spezzettato l’animo del suo protagonista brillante, arguto, corretto nel pensiero e nelle azioni in tre diverse versioni di sé, così diverse tra loro ma allo stesso tempo appartenenti a un tutto unico coerente.
‘Uno e lo stesso’ pronunciavano all’unisono il Nano e il Gigante nella sala d’attesa della Black Lodge al termine della seconda stagione e ora più che mai tali parole hanno assunto un significato concreto.
Cooper-Dougie suscita un moto di tenerezza incontenibile in ogni telespettatore: aspetto sfasato che trasuda bonarietà, la contentezza per il ritorno di un non-più-giovane ma sempre affascinante agente Cooper nel mondo reale dopo venticinque anni di lontananza lascia spazio ad un affetto genuino che scaturisce dalla visione di un impacciato e confuso protagonista, duramente provato dal viaggio fisico-mentale che ha intrapreso tra le due dimensioni.
Cooper-alter ego di BOB rispecchia l’indole malvagia dello spirito demoniaco che per anni ha popolato i boschi e gli incubi degli abitanti di Twin Peaks e di tutti i telespettatori del mondo. Spietato e senza morale, scorrazza in giro da anni impegnandosi a seminare cadaveri e depravazione.
I toni cupi e seriosi che vedono un sublime Kyle Maclachlan più in forma che mai sono smorzati dagli irritanti siparietti tragicomici con cui Lynch ci ha sempre deliziato: un filone narrativo fatto per lo più di una commistione di generi diversi – humor tipico delle soap opera, grottesco e tragicità – molto amata dal regista.
Anche questi non mancano di presentare il marchio di fabbrica tipico di Lynch, fatto di lunghe pause, inquadrature prolungate e dialoghi che sembrano non giungere da nessuna parte. Lo scenario che fa da padrone è quello della stazione di polizia, con Andy e Lucy e il battesimo al pubblico del figlio Wally Brando e Hawk alle prese con l’interpretazione delle parole della Signora Ceppo.
Il ritorno molto gradito di David Duchovny nei panni di Denise e la bizzarra collaborazione tra Gordon Cole e Albert Rosenfield sono senza dubbio il preludio al cambio di direzione a livello di trama che intraprenderà la serie nel corso di questa stagione, avviandosi verso un preciso obiettivo.
La linearità della trama orizzontale si va delineando sempre di più, mano a mano che si aggiungono tasselli e complessità scenica.
Tornando dopo venticinque anni sulle scene televisive, quando i tempi sono ormai maturi per accogliere, apprezzare e comprendere il complesso caleidoscopio di fili narrativi e delle connessioni tra varie dimensioni, Lynch ci propone un lavoro maturo e spettacolare che è consapevole della ventata di novità di cui è stato pioniere per i successivi prodotti seriali che a lui si sono ispirati e che, risorto dal passato come una gloriosa araba fenice, non si lascia più sopraffare dalla volontà dell’emittente televisivo di turno.