‘The key here. Showed up in the mail the other day.
We haven’t use a key like this in over 20 years.
Room 315. I’m pretty sure that this is the key to Agent Cooper’s old room.’
David Lynch non ha nessuna intenzione di premere l’acceleratore sulle vicende dei suoi storici e amatissimi personaggi, ma continua imperterrito a muovere i fili con lentezza, perdendosi di tanto in tanto in distrazioni pseudo-filosofiche o in lunghe pause piene di silenzi assordanti. Mancano sempre meno episodi a dividerci dal gran finale di questo capolavoro che ha fatto la storia della serialità ma il regista non sembra affatto preoccuparsi delle tempistiche: il suo progetto è delineato nei minimi particolari e ogni cosa verrà svelata a tempo debito. I continui rimandi tra la serie classica e il prequel Fire Walk With Me ci rassicurano su questo fronte.
L’intento di Part 12 è di andare a colmare alcuni plot hole di contorno piuttosto che aggiungere nuovi e significativi elementi alla trama principale.
Ecco infatti che dopo la grande dedizione e il continuo impegno nel portare a termine il proprio lavoro, l’agente Tammy viene finalmente introdotta nel team del caso della ‘Blue Rose’, il filo rosso che funge da trait d’union tra passato e presente, e informata sull’enigmatica situazione.
Congeniale e necessario ai fini dell’organizzazione della trama più complessa è anche l’incontro tra Frank Truman e Benjamin Horne, durante il quale lo sceriffo mette al corrente l’uomo dei crimini commessi dal nipote e informarlo delle drammatiche condizioni in cui versa Miriam Sullivan, l’insegnante di scuola materna miracolosamente sopravvissuta al brutale pestaggio di Richard. Il colloquio tra i due si sposta poi sulla questione della chiave vecchia di venticinque anni del Great Northern Hotel, apparsa sulla scena assieme al good Cooper e ora giunta tra le mani di Horne. È lecito pensare che le vicende legate alla vecchia chiave non rimarranno congelate al mero ricordo affettivo, ma i sottintesi non ancora rivelati che le gravitano intorno potrebbero portare a una svolta interessante nonché determinante nell’intera faccenda dell’agente Dale Cooper. Ci troviamo dinanzi, ancora una volta, a uno dei tanti elementi secondari con cui Lynch ama arricchire il nucleo centrale delle vicende.
È probabile anche che Hawk e Frank Truman tornino in futuro ad interrogarsi sull’apparizione della chiave della stanza 315, ma per il momento i due uomini sono concentrati ad organizzare la spedizione per ritrovare il misterioso luogo indicato dalle coordinate del Maggiore Briggs.
Introdotte in Part 9 e lasciate sospese nel limbo della narrazione per creare quell’attesa che deriva dalla consapevolezza di star per assistere a un’importante rivelazione, le coordinate di quel criptico messaggio potrebbero condurre proprio nel luogo in cui, nello scorso episodio, Gordon Cole e Albert Rosenfield hanno assistito alla manifestazione di fenomeni extra-dimensionali, culminati nell’apertura di un portale.
Come abbiamo già potuto vedere, quel luogo emana una potente quanto oscura energia, tanto da far supporre a un nuovo ingresso per accedere alla Loggia. Ma verso quale Loggia ci si stia dirigendo ancora non è ben chiaro.
L’entità dei due luoghi extra-dimensionali non è ben definita, così come labili e fumosi sono i loro stessi confini, ammesso e concesso che la Black Lodge e la White Lodge siano effettivamente due realtà distinte e separate tra loro.
Basandoci sui racconti dell’agente Hawk, sappiamo che ‘The White Lodge is a place where the spirits that rule man and nature here reside. There is also a legend of a place called the Black Lodge: the shadow self of the White Lodge. There you will meet your own shadow self.’
Non è così strano credere quindi che probabilmente l’oscurità della Black Lodge abbia assorbito e inglobato la White Lodge, trasformandosi così nella sala d’aspetto della sua controparte malvagia. Tenendo fede a questa descrizione, viene naturale collegare ad essa le vicende che vedono protagonista lo stesso agente Dale Cooper, il cui animo è spezzettato in due diverse versioni di sé, così diverse tra loro ma allo stesso tempo appartenenti a un tutto unico coerente.
‘Uno e lo stesso’ pronunciavano all’unisono il Nano e il Gigante nella sala d’attesa della Black Lodge al termine della seconda stagione e ora più che mai tali parole hanno assunto un significato concreto.
Non è chiaro cosa dobbiamo aspettarci dalla White Lodge. Nemmeno il Maggiore Briggs era riuscito a comprendere appieno in cosa si fosse imbattuto quando, durante uno dei suoi tanti viaggi fuori dal tempo e dallo spazio, era riuscito a visitarla.
Forse giungeremo alla soluzione dell’arcano più avanti, probabilmente quando il not good Cooper farà ritorno nell’oscura reggia del Male.
‘What do we know that we haven’t asked her about? We’ll figure it out. But for now, I’d really like to get back to this fine Bordeaux.’
Albert mette al corrente Gordon della strana corrispondenza che Diane intrattiene con uno sconosciuto interlocutore. I due agenti non sanno ancora l’identità del contatto, ma intanto la figura della segretaria del buon Dale Cooper si avvolge di quell’aura di insidioso e dubbio sospetto pervadendo così negativamente la vita dello stesso personaggio, imbrigliato in un doppio gioco deleterio e malsano.
L’attesa per il ritorno di Audrey Horne era diventata insostenibile, stuzzicata con insistenza dal regista che non perdeva occasione di menzionarla attraverso il dettaglio delle scarpe rosse.
Comparsa finalmente in questo revival dopo una lunghissima assenza, il ricordo che avevamo del suo dolce e caparbio personaggio, in bilico sul filo sottile del flirt frivolo e del corteggiamento serio nei confronti di un composto e ligio agente Cooper viene immediatamente sostituito da una versione adulta burbera e scontrosa. Bisogna notare che Audrey riappare sulla scena in un momento di forte preoccupazione per la sorte di alcuni suoi cari e quindi non possiamo totalmente biasimarla per l’uso di un tono ansioso e pressante rivolto verso il composto e bizzarro marito Charlie.
In Part 12 abbiamo il ritorno di Sarah Palmer, enigmatico personaggio che risulta tanto più stravagante quanto inquietante agli occhi del telespettatore dopo il delirante e innaturale comportamento tenuto al supermercato. Un atteggiamento che ha ricordato da vicino la reazione che ebbe quando vide per la prima volta BOB rannicchiato e ghignante ai piedi del letto.
A spezzare la seriosità delle vicende principale ci pensano come sempre gli amatissimi siparietti tragicomici e le sequenze volutamente lente che sfociano in pause grottesche e a volte irritanti, dove troviamo ormai i soliti personaggi secondari, veterani navigati di questo filone narrativo che ricalca l’humor tipico delle soap opera.
Il Doctor Jacoby continua tenacemente la sua crociata telematica, intenzionato a smascherare i vizi e le falsità di cui sono portatrici le alte funzioni sociali e politiche, seguito con ardore sul suo canale da Nadine Hurley, la quale è riuscita a brevettare con grandissimo successo il binario silenzioso per le tende. Le ossessioni sono dure a morire.
‘It hurt my arm when you moved it down here. But it really hurt when you had it down here. See? Doesn’t that hurt your arm when I go like that?
I think it’s much worse when it’s down here.
Let’s go back to Starting positions.’
La ripresa della struttura narrativa lineare che consentiva agli episodi di riallacciarsi tra di loro per continuum e per modus operandi, relegando i momenti confusi e fumosi più al margine per far posto all’intreccio e alla costruzione della trama a lungo termine vengono nuovamente sconvolti con Part 13.
David Lynch ritorna a tessere la trama infarcendola abbondantemente del suo disordine artistico e surrealista, tenendo così in allenamento la nostra intelligenza e contemporaneamente viva la nostra attenzione di cogliere ogni più piccola sfumatura di particolari.
Il sospetto era serpeggiato già da qualche episodio, rafforzandosi gradualmente mano a mano che si procedeva con la visione delle parts. Con questo tredicesimo frammento di questo lunghissimo film che altro non è che Return – come da originaria concezione di Lynch e Frost – la sensazione che la narrazione si stia muovendo secondo una logica interna che si sposa perfettamente con il punto di vista divagante e frammentato del regista diventa una conferma a tutti gli effetti.
La frustrazione e l’insoddisfazione che divampano nell’animo del telespettatore alla luce della sconvolgente scoperta degenerano in una sensazione di claustrofobia soffocante, come essere intrappolati in una stanza e non riuscire ad uscirne.
In Part 12 il buon Dougie Jones compare brevemente mentre gioca in giardino con Sonny Jim. In Part 13 ritroviamo Dougie di ritorno dalla serata di baldoria iniziata in Part 11, grazie a una specificazione fatta dal capo stesso del good Cooper come a voler chiarire la sequenzialità degli eventi. Quindi, dove collochiamo il momento in cui l’uomo gioca, per così dire, con il figlio? Dobbiamo considerare quella scena come un cameo oppure attribuirle un significato altro in pieno stile lynchiano?
Ma il particolare più eclatante ce lo regala Bobby Briggs.
Recatosi alla Double R, incontra Norma e un ritrovato Ed Hurley (protagonista poi di una dubbia quanto creepy scena finale) che ci rivela l’amarissima evoluzione del suo rapporto con la proprietaria della caffetteria. Bobby cerca Shelly e nel mentre si fa sfuggire di aver rinvenuto, assieme a Hawk e a Frank Truman, degli strani oggetti appartenuti al defunto padre. Il ritrovamento delle coordinate avviene in Part 9.
Quindi dove dobbiamo collocare le vicende di Part 11, ovvero il colloquio con Shelly e la figlia e l’alienante sequenza del caos cittadino scoppiato per un colpo di pistola partito accidentalmente, il fastidioso clacson suonato ininterrottamente e l’inquietante creatura che vomita di continuo?
In ultimo, nell’analisi dei momenti che non tornano, va menzionata Sarah Palmer, intenta a guardare un incontro di boxe in loop mentre si serve da bere.
Dove collochiamo quindi la scena del supermercato? Dopo tale evento, giustificando così la presenza delle bottiglie dell’alcol come il mantenimento della promessa fatta dal commesso, oppure prima e quindi la donna si è recata in città per rifornire la sua personale scorta di alcolici, confermando il fatto che se la stia passando peggio di quanto ricordavamo nella seria classica?
A questo punto una domanda sorge spontanea: qual è la logica che governa le vicende in Twin Peaks?
Quella del lineare avvicendamento degli eventi, basata su una scansione temporale ben definita o quella della dimensione onirica, dove è possibile la coesistenza di momenti imbrigliati in un eterno loop temporale senza via d’uscita a cui si alternano frammenti di vicende ordinate secondo la logica della coscienza? Lynch si sta forse spingendo oltre i confini del già noto, imbastendo una trama disordinata in apparenza ma che vuole abbracciare diversi piani dimensionali, sia extra-sensoriali sia metaforici?
Credo di essermi persa anche io a questo punto.
Accantonati momentaneamente i tentativi di imbrigliare le surrealiste divagazione lynchiane in una logica umana e pragmatica, in Part 13 torna sullo schermo il not good Cooper, assente da qualche episodio, che la fa da padrone in una sequenza di scene tanto cruente quanto spettacolari. Il malvagio doppelgänger diventa di merito il capo di una banda di rozzi individui per niente raccomandabili dopo aver battuto a braccio di ferro il loro leader in una sequenza favolosa. Ma evil Cooper non è lì per arruolare nuovi seguaci, ma per regolare i conti in sospeso con Ray, brutalmente eliminato – come era ovvio che accadesse dopo il tradimento – non prima di aver menzionato Philip Jeffries (l’agente interpretato da David Bowie in Fire Walk With Me a capo dell’oscuro caso della Blue Rose) e aver rimandato il celebre anello nella Black Lodge. Tra i brutti ceffi troviamo anche Richard Horne, che avanza tra la grezza folla di omaccioni non appena riconosce (almeno sembra) il not good Cooper, facendo presupporre un legame tra i due.
Le vicende di Dougie Jones continuano a vestirsi di un’aura fatta di tenerezza e impaccio, bilanciando la violenza e la malvagità della controparte oscura.
Con la sua adorabile affabilità, smaschera inconsapevolmente un giro criminale e porta Anthony Sinclair a confessare accorato e in lacrime il suo tentato omicidio, commissionatogli da Duncan Todd.
David Lynch gioca con gli sguardi persi nel vuoto del good Cooper, regalandoci per un solo brevissimo istante quel barlume di speranza che ci porta sempre a credere che Dougie abbia riacquistato la consapevolezza della sua vera identità. In realtà, ciò che attira la sua attenzione è sempre una damn fine cup of coffee o un pezzo di crostata di ciliegie che continuano a far bruciare ancor di più la ferita della delusione.
Ritroviamo di nuovo Audrey e il marito Charlie e questa volta il dialogo tra i due sembra chiarire (o confondere?) ulteriormente le prime interpretazioni formulate dopo la loro prima apparizione. Lo stato di confusione e alienazione in cui è piombata Audrey fa supporre fortemente che tale condizione sia frutto di una proiezione onirica della stessa dettata dal coma. Ciò spiegherebbe anche perché rivendendo Charlie, l’uomo sia facilmente associabile al personaggio-guida del Nano, non solo per la rassomigliante fisionomia.
Confusionario, surreale, sopra le righe, Return è quanto di più geniale e spettacolare abbia mai creato David Lynch.
Il suo più vero e autentico testamento artistico.