«E se smettesse di sognare di te, dove credi che saresti?»
«Dove sono ora, naturalmente», ribatté Alice.
«Niente affatto», disse Piripù sprezzante. «Non saresti in nessun luogo. Perché tu sei soltanto un qualche cosa dentro il suo sogno.»
Il concetto del sogno come lavoro del subconscio dell’uomo prediletto nel momento del riposo, quando i freni inibitori della ragione allentano la loro presa sull’Es freudiano e lo lasciano libero di esplicitare se stesso nelle forme che più gli sono consone ha sempre affascinato l’essere umano e pervaso tutti gli ambiti dello scibile da lui esplorati. Goya ne esplorava la carica più oscura e mostruosa, imprimendo ne ‘Il sonno della ragione genera mostri’ il caos primordiale che deriva dall’assenza di una mente razionale a governare gli istinti.
«La fantasia priva della ragione genera impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie.»
Anni dopo, Lewis Carroll darà vita a una vera e propria Wonderland con la sua fantasia, creando una realtà meravigliosa e folle raggiungibile solo con un sogno.
L’Es viene lasciato libero di creare e la ragione si fa da parte, inutile spettatrice di un altro che non riesce a governare.
Il paragone con Alice in Wonderland scaturisce così spontaneo e genuino da non poter ignorare che la logica che sorregge l’intera architettura del romanzo di Carroll non sia la stessa su cui poggia Twin Peaks.
Se venticinque anni fa l’interrogativo che aveva tormentato i telespettatori riguardava il nome dell’assassino di Laura Palmer, oggi la domanda cambia radicalmente, sconvolgendo persino le fondamenta stesse della serie: ‘Who is the dreamer?’
Posto il parallelismo calzante con le opere di Carroll e riconducendo l’intera narrazione di Twin Peaks alla Wonderland creata dal sogno di Alice, la risposta alla domanda posta da Monica Bellucci in Part 14 ce la fornisce il saccente Humpty Dumpty, grosso uovo antropomorfo superbo e pieno di sé che Alice incontra su un muretto in Through the Looking Glass:
«Quando uso una parola», Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, «essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.»
«La domanda è», rispose Alice, «se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.»
«La domanda è,» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda – tutto qui.»
La conclusione sulla disquisizione linguistica a cui si giunge è perentoria: non esiste una corrispondenza esatta tra il significato e il significante di una parola. Il significato viene deciso dal parlante e non dalla parola stessa, ovvero il significante.
Trasposto tale ragionamento nell’universo di Twin Peaks, comprendiamo quindi come l’intero significato di tutta la mitologia della serie risiede in ciò che decidiamo noi in quanto telespettatori e non per ciò che l’immagine in sé realmente significa.
‘Ognuno vedrà nella serie ciò che vuole’ si è rivelato l’ammonimento di David Lynch più veritiero e consapevole che ci ha consegnato nel momento in cui si procede a sbrogliare l’intera matassa.
Conoscendo la moderna Alice persa nel suo sogno tra la fitta boscaglia di Twin Peaks avremo la corretta interpretazione dell’intera serie.
David Lynch non ci svela il mistero, ma ci lascia vagare nel suo labirinto narrativo dietro a un Bianconiglio col panciotto.
Il tempo scorre secondo una legge propria, ‘the past dictates the future’ e l’ingranaggio del nostro orologio da taschino si muove verso un avanti nebuloso, dove i confini dei piani narrativi diventano permeabili, arrivando a confondersi l’uno sull’altro, attratti e respinti gli uni verso gli altri da una Forza invisibile che genera urla e buio e ci rimbalza contro carica della sua frustrazione.
Così diverse ma così indissolubilmente legate, Part 17 e Part 18 rappresentano il dentro e il fuori dello specchio di Alice, a seconda della prospettiva di visione che si assume.
Fuori dal Looking Glass, abbiamo la gratificante conclusione lungamente attesa dagli spettatori, lo scontro tra il Bene e il Male, tra il Bianco e il Nero che, conseguentemente, innesca nuove vicende, determinando l’attraversamento dello Specchio, spinti dalla curiosità di scoprire What Alice Found There, ansiosi di vedere cosa si nasconde dietro i drappi rossi della Black Lodge.
«Before he disappeared, Major Briggs shared with me and Cooper his discovery for an entity, an extreme negative force called in olden times ‘Jowday’. Over time, it’s become ‘Judy’.»
La base operativa della task force è di nuovo il luogo prediletto da Gordon Cole/David Lynch dare il via alla spiegazioni importanti che legano tra loro le vicende del presente e del passato. Ritroviamo Albert, Gordon e l’agente Tammy nei momenti successivi alla sparizione della fake Diane, pronti ad assemblare, insieme a noi, il puzzle riguardante la mitologia della serie e l’origine della Blue Rose.
La fantomatica Judy trova finalmente la sua collocazione nell’universo di Twin Peaks: è l’Experiment, il Male Oscuro generatori dal primo test nucleare della Storia in Part 8, incontrata poi come Mother nella doppia première.
Durante gli anni l’FBI e il dipartimento del Maggiore Briggs hanno cercato di monitorare l’attività di questa entità malvagia, riuscendo probabilmente a controllarla o ingabbiarla nell’enigmatica scatola di vetro controllata giorno e notte.
È probabile che ora tale entità risieda nella mente di Sarah Palmer. Un pensiero ardito porterebbe a credere che forse Mother ha preso possesso della mente e del corpo della donna nel lontano 1956, quando l’orribile insetto nato nel deserto ha trovato il suo ospite in una giovane addormentata nella scena finale di Part 8.
Fatto sta che chiunque entri a contatto con Judy sparisca misteriosamente, così come è accaduto al Maggiore Briggs e a Philip Jeffries.
‘If I disappear like the others, do everything you can to find me. I’m trying to kill two birds with one stone.’
Torna una delle sentenze pronunciate dal Gigante/Fireman in apertura a Return e ora finalmente acquista un significato concreto, andando a chiudere un cerchio apertosi fin dal pilot, conciliando così allo stesso tempo il passato con il presente in un Uno unico, lungamente diviso in frammenti.
Le vicende di tutti i personaggi confluiscono nell’ufficio dello sceriffo: lì dove la storia ha avuto inizio ora trova la sua conclusione. Il not good Cooper va incontro alla sua fine per mano del giovane Freddie e del suo guanto verde, investito da tale responsabilità dagli Spiriti della White Lodge.
Freddie era quindi un predestinato, la mano destra del Bene che ricaccia all’Inferno e infine distrugge il Male che a lungo ha dilagato per il mondo.
Come Freddie, anche Lucy è una predestinata, scelta tra tutti a premere il grilletto che porterà a conclusione il diabolico errare di Cooper-BOB. Il Bene ha trionfato sul Male, ma è una vittoria che ha del dolce-amaro: Dale Cooper si dimette dal ruolo di eroe focale, preferendo lasciare il posto a Freddie.
Si chiudono così a cascata anche le ultime storyline rimaste aperte fino a questo momento, quelle di Audrey e di Becky in particolar modo. La loro interpretazione viene lasciata alla sensibilità del telespettatore, chiamato a conferir loro un significato quanto mai coerente con ciò che Lynch ci ha mostrato.
La probabile uccisione di Becky per mano di Steven si pone a chiusura di una parentesi narrativa nata dal nulla; la Audrey’s dance, il brusco risveglio e il riflesso nello specchio portano a rendere plausibile l’ipotesi che l’inconscio di Audrey, in stato vegetativo per via del coma, abbia creato una dimensione extra-corporea dandogli le sembianze di un ambiente familiare come la Roadhouse.
‘The date. February 23, 1989.’
‘This is where you’ll find Judy.’
Dimessosi dal ruolo di eroe, la missione del buon agente Dale Cooper ora è un’altra, quella del sacrificio estremo per la salvezza del mondo.
Dale Cooper ritrova la sua Diane, intrappolata nel corpo di Naido, e con lei anche tutti gli storici personaggi che lo hanno accompagnato lungo il suo viaggio.
L’happy ending tanto atteso ha però la durata fugace di un battito di ciglia. Ne diveniamo pienamente consapevoli non appena il viso del buon agente si staglia sullo sfondo della stazione dello sceriffo e sulla vita di ciascun personaggio.
Consapevole di ciò che lo attende, Dale Cooper proietta la propria coscienza oltre lo scenario lieto e felice dei suoi compagni di viaggio e si avventura nell’ultima missione.
La scena cambia rapidamente: Cooper, Cole e Diane si addentrano per un lungo e buio corridoio. Torna di nuovo la vecchia chiave dell’agente, quella che apriva la stanza 315 del Great Northern Hotel.
Ad attenderlo nel buio extra-dimensionale ci sono MIKE e Philip Jeffries. Sequenze prolungate, poche battute accompagnate da sinistri cigolii sono ciò che servono a David Lynch per ribaltare dalle fondamenta tutta la serie classica e riaprire di nuovo i giochi con un passato che non è mai stato tale, ma sempre un presente sotto false sembianze.
Il simbolo del Male, lo stemma impresso sull’anello, della grotta del gufo si trasforma e assume nuove sembianze, quelle di un otto specchiato o di un eterno infinito che ritorna.
Si è aperto un varco nel passato, che, a quanto pare, può essere cambiato.
Come Alice, Dale Cooper attraversa lo Specchio e ciò che vi trova sono gli ultimi momenti di vita di Laura Palmer, raccontati in Fire Walk With Me.
‘Is it the story of the little girl who lived down the lane?’
Il cuore pulsante dell’intera serie si carica di speranza, quella che viene dalla mano di Dale Cooper che offre la salvezza a Laura Palmer. Un elemento potente in grado di andare a cambiare per sempre gli storici momenti di quel pilot entrato per sempre nella storia della televisione. Laura riconosce il buon agente come il Dale Cooper del suo sogno e, assieme a lui, si inoltra nel buio denso del bosco.
Un urlo rabbioso cambia di nuovo la scena, portandola nel salotto di casa Palmer dove la furia di Mother/Sarah si scaglia sulla celebre foto della ragazza: il passato è stato cambiato.
Cala il sipario anche sulla Roadhouse, o per lo meno su quel luogo che in apparenza ripropone l’iconico locale. La musica nostalgia e le tende rosse sono il commiato che ci regalano gli storici personaggi, una conclusione dolce-amara come le note intonate da Julee Cruise.
‘Remember 430, Richard and Linda, two birds with one stone.’
Dopo la prima rivelazione di una delle tre, le due rimanenti profezie del Gigante/Fireman continuano a segnare il percorso di Cooper.
Lungo le 430 miglia, si snodano scenari familiari che lasciano in bocca quel sapore del già visto, ma che subito svanisce, lasciando posto alla consapevolezza di essere davanti a uno spostamento dimensionale, dove il déjà-vu assume un nuovo significato, è ormai altro da se stesso. L’anima, l’istinto primordiale è quello che conosciamo, ma è trasferita altrove.
La piccola scintilla accesa con quel bacio in Part 17 trova ora il culmine: Cooper e Diane diventano protagonisti di una notte di passione tanto infuocata quanto curiosa. L’atto d’amore che li unisce determina la perdita della loro identità. Al mattino, Cooper è Richard e Diane/Linda è scomparsa, lasciando sul comodino un biglietto d’addio.
Questo Richard ha ricordi di Dale Cooper perché, come lui, è un agente dell’FBI, ma al contempo ha in sé anche dei tratti più oscuri, come se le due passate identità si fossero fuse in un nuovo Uno.
Già durante il viaggio in macchina con Diane l’atteggiamento del nuovo Cooper aveva destato dei sospetti, ma è nella scena della tavola calda che i dubbi si trasformano in certezze. Violenza, azioni rabbiose e linguaggio brutale mal si addicono alla personalità del buon agente che tanto abbiamo amato. C’è qualcosa che stona con la vecchia identità, un quid che rimanda al not good Cooper posseduto da BOB.
Ma sotto la superficie c’è ancora quello spirito tenace e combattivo del vero Dale Cooper, l’uomo ligio al dovere e con un’integrità morale salda che continua la sua crociata da vero stacanovista. Ed è così che Cooper rintraccia Laura Palmer, ora Carrie Paige.
La donna non ricorda e lo sconforto assale l’uomo, ma anche noi dietro lo schermo. Tra le pieghe della disperazione per l’ennesima illusione Lynch annida sottilmente piccoli indizi per riaccendere la speranza: a cominciare dal Judy’s Café, proseguendo poi per il cadavere nell’appartamento di Laura/Carrie per terminare sull’inquadratura del cavallo bianco sulla mensola. Elementi non affatto casuali che Lynch si diverte a disseminare nella nuova Wonderland che tuttavia non è poi così diversa da quella che abbia conosciuto cadendo giù per la tana del Bianconiglio.
‘What year is this?’
Ha inizio un nuovo viaggio che vede Cooper/Richard e Laura/Carrie dirigersi verso la casa dei Palmer a Twin Peaks. Abbandonata ogni tipo di speranza di ottenere un chiarimento che vada al di là della mera interpretazione personale del ‘io ho visto quel che ho voluto vedere’, l’attesa e le aspettative continuano ad essere altissime, tenute in allerta dal consueto gioco delle sequenze lunghe e dei silenzi assordanti che vanno a riempire gli interminabili intervalli tra uno sprazzo di dialogo e l’altro. Poi, sordo e violento arriva lo schiaffo in faccia. Casa Palmer è ora abitata dai signori Tremond, acquistata dai precedenti proprietari, i Chalfont. Cognomi non casuali che rimandano alla serie classica (Tremond era il cognome della signora a cui serviva i pasti Donna Hayward) e a Fire Walk With Me (Chalfont è il cognome di coloro che avevano affittato il parcheggio per roulotte accanto a quello di Teresa Banks).
Nuovi indizi, nuovi rimandi al passato che giocano con l’amarezza della sconfitta. Cooper vacilla di fronte all’ammissione della signora Tremond di non conoscere i Palmer.
Negli ultimi minuti avviene lo sconvolgimento estremo innescato da una nuova domanda.
In che anno si trovano? È il passato o il presente? Cosa ha innescato il ritorno di Laura a casa?
Un lento battito di ciglia e poi l’urlo straziante della donna infrangono l’inquietante silenzio della notte. L’elettricità va via e la casa piomba nel buio. La scena di Laura che sussurra nuovi segreti a Cooper fa da sfondo al passaggio dei credits finali.
‘It was a dream. We live inside a dream.’
Rompicapo affascinante ed ambizioso, Twin Peaks è il vero e autentico testamento artistico di un regista eclettico e colto, consapevole di star riscrivendo la storia della televisione attraverso la rottura dei canoni classici della narrazione: l’esplorazione della dimensione onirica così viscerale e sfaccettata, la struttura temporale che segue il flusso della coscienza e si pone al di sopra e al di fuori del Tempo, sbeffeggiandolo delle sue rigide scansioni, dei suoi ritmi universali, l’amore per l’humor noir e fuori luogo, per le routine e per gli eterni ritorni di un uguale che è diverso da se stesso ma conserva nel profondo la sua intima essenza.
Tornando sul piccolo schermo con un Return dal titolo emblematico sotto molteplici punti di vista, Lynch ha estremizzato ai massimi livelli il suo modus narrandi, sconfinando nei territori mai esplorati dell’assurdo, dove le spiegazioni della ragione umana cadono rovinosamente come un castello di carte.
Twin Peaks chiude la sua storia dopo ventisette anni dal suo inizio, ma Lynch sognatore non si è ancora risvegliato del tutto dal suo sogno e decide così di attraversare lo Specchio. Se Part 17 si presenta come la conclusione ideale alle vicende degli abitanti di una fittizia cittadina di montagna, Part 18 è l’epilogo altro, il sogno nel sogno coerente con la mente di Lynch, poesia moderna che attraversa lo schermo e traduce in immagini ciò luoghi che solo lo spirito riesce ad esplorare.
Return è un’opera alta e solenne, scaturita da una mente che ama osare con spettacolarità e stranezza affatto scontate.
La costruzione di regole proprie che derivano dalla destrutturazione dei topoi classici e l’assottigliamento del confine tra realtà e immaginazione hanno permesso a David Lynch di dare al suo Twin Peaks le sembianze di una moderna Wonderland, dove forse bisognerà di nuovo attendere prima di cadere di nuovo giù per la Tana.
Ma per questa nuova Wonderland varrà ancora la pena aspettare.
Anche venticinque anni.