Netflix, dal suo sbarco nell’era della serialità streaming, ci ha abituato a prodotti d’intrattenimento molto spesso anche troppo fini a se stessi.
Ma è davvero impossibile resistere alle 4 puntate di When They See Us senza uno scossone profondo alle nostre convinzioni, alle nostre idee, ai valori che ci hanno costruito come persone.
Ava DuVernay, autrice e regista della miniserie, non è di certo nuova all’affermazione della propria identità (di donna e nera) e al racconto spesso durissimo delle violenze e della fatica della sua comunità nella lunga strada per i diritti civili: già con Selma (2014) aveva tracciato una linea ben definita, narrando l’apice della rivolta per il diritto di voto agli afroamericani, nella prima metà degli anni 60.
Qui, però, siamo ben oltre la dimensione storica della narrazione.
La vicenda al centro della serie è contemporaneità pura: il caso della jogger 28enne di Central Park, Patricia ‘Trisha’ Meili, è infatti del 19 aprile 1989.
Una data vicinissima a noi, parte integrante dei nostri ricordi, di cui la DuVernay ci rievoca il clima di esasperazione collettiva, odio razziale e caccia al mostro che investì i 5 protagonisti di una delle montature giudiziarie più assurde degli ultimi 30 anni.
Perchè, in fin dei conti, di montatura si trattò: Trisha Meili fu ritrovata in condizioni gravissime a Central Park North in quella sera di aprile, dopo esser stata brutalmente pestata e stuprata.
Ma a fare le spese di un caso che sembrava irrisolvibile, e a cui andava attribuito un colpevole congeniale all’opinione pubblica e alle sue psicosi razziali media-indotte, furono 5 ragazzi adolescenti (4 afroamericani e un ispanico) che, banalmente, non avevano commesso il fatto.
Antron McCray, Kevin Richardson, Raymond Santana jr., Yusef Salaam, Korey Wise: i primi 4 addirittura minorenni, l’ultimo da poco maggiorenne, entrano in scena nella maniera più naturale possibile per ciò che sono.
E cioè dei ragazzini.
Le loro vite sono scandite dai ritmi tipici dell’adolescenza, tra discussioni familiari, scuola (spesso marinata) e uscite di gruppo per dissolvere la noia.
Ed è proprio durante una di queste serate, in quel di Central Park, sulle note di “Fight the power” dei Public Enemy, che vediamo consumarsi una situazione confusa, pericolosa, in cui i ragazzi non sanno come reagire all’improvviso arrivo della polizia newyorkese.
Il terrore di essere coinvolti in qualcosa di più grande di loro è evidente, qualcosa di sconosciuto, di avvolgente, di definitivo: la fuga da un misfatto che nemmeno conoscono è sporca di fango e adrenalina, la regia è veloce, nervosa, convulsa.
Ma ad un certo punto qualcosa si spezza.
La cattura, il commissariato, gli interrogatori.
La crepa nel vaso comincia ad approfondirsi non appena capiamo che i procuratori Linda Fairstein (Felicity Huffman) ed Elizabeth Lederer (Vera Farmiga) non hanno nulla di incriminante tra le mani, e iniziano a forzare la situazione.
Costruiscono una storia alternativa, la propinano a 5 ragazzini terrorizzati, li portano al limite della resistenza, fisica ed emotiva: la DuVernay ricostruisce in maniera impressionante per cura dei dettagli tutti i video delle confessioni estorte ai ragazzi (ormai conosciuti come i Central Park Five), gli inganni e le forzature perpetrate dai detective, la disperazione delle famiglie.
In questa prima parte di When They See Us la luce è quasi sempre artificiale, non c’è spazio per la distensione narrativa, ci sono solo urla, lacrime, stanchezza, sfinimento: nella claustrofobia delle tipiche stanze da interrogatorio, nell’avvicendarsi del gioco poliziotto buono/poliziotto cattivo, nei meeting di gruppo tra le famiglie e i loro avvocati (tra cui rivediamo Joshua Jackson).
Veniamo riportati alla dimensione reale del mondo esterno solo da una colonna sonora eccezionale e composta per la gran parte da autori afroamericani giovanissimi (come Michael Kiwanuka), o mostri sacri del rap come Mos Def: le loro note accompagnano l’indignazione della comunità nera al di fuori dei palazzi, la battaglia per la verità, la determinazione a “scardinare il racconto e arrivare ai fatti”.
La stessa determinazione a non cedere di un millimetro accompagna i Five nel loro percorso carcerario: che sia minorile o ordinario, nessuno di loro si abbandona alla disperazione che tradiscono alla fine del secondo episodio.
Eppure di motivi ne avrebbero potuti avere: persino un incommentabile Donald Trump provò a esasperare ulteriormente l’opinione pubblica sul caso, comprando 4 prime pagine di quotidiani newyorkesi (al modico costo di 85mila dollari) per richiedere addirittura la reintroduzione della pena di morte nello stato di New York.
La lotta dei Five per la verità, quindi, si basa sull’inflessibilità nella propria innocenza.
E mentre i 4 minorenni rivedranno, con difficoltà relazionali e lavorative, il distendersi della vita dopo la reclusione, osserviamo Korey Wise, l’unico maggiorenne del gruppo, invischiato in un’odissea carceraria lunga 13 anni, in strutture ordinarie in cui la sopravvivenza è legata all’isolamento e a rari secondini di fugace umanità.
Il faro di speranza, però, come già detto, è la convinzione incrollabile nella propria estraneità ai fatti. Anche di fronte ai vantaggi che l’ammettere la colpevolezza potrebbe dare nella vita all’interno del carcere. E nel caso di Wise questo diventa particolarmente vero, in un ultimo episodio di When They See Us quasi monografico, intensissimo di flashback, allucinazioni e ricordi familiari, che da un lato ne ingrandiscono la fragilità, ma dall’altro ne amplificano l’umanità, la dignità, la semplicità.
Il tutto culmina nell’ammissione quasi beffarda di responsabilità di Matias Reyes, pluriomicida detenuto assieme a Wise ad Auburn nel 2002: era stato lui ad aggredire e stuprare Patricia Meili, e la prova del DNA lo conferma senza appello, laddove per i Five aveva fallito miseramente.
Il rilascio dell’unico maggiorenne ai tempi del misfatto avviene di conseguenza, così come la derubricazione per tutti e 5 i ragazzi di Harlem dal registro dei sexual assaulter dello stato.
Questa risoluzione però non fermerà i Five dall’intentare causa alla città di New York, in un procedimento durato più di 12 anni fino alla vittoria dei 5 e ad un risarcimento di 41 milioni di dollari nel 2014.
E se pure, in questa assurda ed insopportabile vicenda giudiziaria, fossimo tentati di guardare solo alla pochezza di un risarcimento che non restituisce di certo una giovinezza rubata ai Central Park Five, When They See Us ricorda a tutti che la resistenza passa per la nostra ragione di vita, che sia una persona, un lavoro, una passione: è la lezione lasciata a Kevin Richardson da sua sorella nel terzo episodio, trovare quella ragione e crederci incrollabilmente, per restare in piedi anche quando la luce della propria lanterna sembra spegnersi.